THE MASAI GIRL
August 2012 L’aria era calma e piatta in quel villaggio ad un’ora da Arusha. La terra rossa, di un rosso intenso e acceso tanto da crederlo finto se lo avessi visto in un qualche spettacolo televisivo, era interrotta da quelle capanne di fango e paglia, quelle abitazioni distribuite in quello spazio vasto e piatto privo di tutto se non di qualche arbusto e cespuglio che spuntava dal terreno secco e polveroso. Il villaggio era tutto qui: qualche capanna, degli arbusti intorno, qualche sentiero accennato sul terreno a definire percorsi privilegiati, degli spiazzi più grandi intorno alle capanne stesse, qualche oggetto appena fuori della porta, unico e solo punto di luce e aria di queste strutture. Due cani magrissimi, dall’aspetto annoiato e poco convinto, si aggiravano senza fretta intorno alla casa. A tratti abbaiavano verso di noi, ma il più delle volte erano attenti ad evitarsi a vicenda. All’improvviso si azzuffavano, il più piccolo scappava o interveniva il padrone a cacciarli. Come nulla fosse, una volta allontanati, riprendevano la loro aria indolente e indifferente. Di piccola taglia, molto magri, non erano certo tali da mettere paura. No. Non c’era questo aspetto né per i cani né per la situazione in se. Nessun timore. Una sensazione di fiducia generica e radicata, a prescindere dalla completa e totale diversità di questo luogo, cultura, gente. Nessuna tensione, nessuna incertezza o punto interrogativo, per alcuno di noi. Dal sentiero principale, guidati dall’interprete e da altri locali, ci avvicinammo ad una delle capanne. Identica a tutte le altre, indistinguibile ai miei occhi da alcuna altra, sembrava comunque solida e consistente. Mi fermai un attimo a guardare le pareti, le toccai con una mano per saggiarne l’aspetto, più solido di quello che immaginassi. Il tetto era spesso e si vedevano spuntare parti di legno o canna che ne costituivano l’anima interna. Tetto solido, a dover fronteggiare la stagione delle piogge. Immaginavo, o meglio non riuscivo ad immaginare, questi campi, questo spazio, queste abitazioni sotto la pioggia e in mezzo al fango. Mi guardai intorno. Il terreno asciutto, quasi arido, di un bellissimo rosso. La polvere alzata dai cani quando correvano o da un alito di vento di tanto in tanto. Il marrone delle capanne, il verde spento degli arbusti coperti di polvere, gli abiti colorati degli uomini e donne che erano venuto ad accoglierci, il nero vellutato, pacato vorrei chiamarlo, dei loro volti, a rendere più incisivi i colori degli abiti che indossavano. In alto, il cielo limpido e blue regalava macchie bianche di nuvole. Come tutto questo sarebbe cambiato con la pioggia non mi era dato sapere. La madre era seduta su una sorta di piccolo sgabello proprio all’ingresso della capanna. Non saprei dire la sua età, troppo diverse le fisionomie di queste popolazioni per poter avere un’idea sensata di questo. Certamente giovane, molto giovane come tutte queste madri. Vorrei dire avesse un abito da festa, ma non posso esserne certo. Quello che so, è che quello era per loro un giorno speciale: c’erano degli ospiti che venivano da lontano, quasi da un altro mondo. E alcuni di quegli ospiti erano quelli che si curavano di aiutare uno dei loro bambini. Niente di più facile che davvero indossasse un abito di festa, per onorare quegli ospiti e se stessa. Era certamente imbarazzata, con tutti questi ospiti, con il dover parlare di se, della propria famiglia a degli estranei che facevano, seppur con discrezione, delle domande su di lei, sulla sua gente, sui suoi figli. Certamente imbarazzata. Ma anche fiduciosa in qualche modo. La tensione iniziale si sciolse in brevissimo tempo e tutto divenne quasi un colloquio garbato. In braccio alla donna un bambino ancora piccolo. Vicino a lei uno dei due cani andava e veniva incurante di tutto. Intorno a lei, alcuni seduti altri in piedi, un’altra donna del villaggio, forse una parente, l’interprete, altri del nostro gruppo. Io e Nick in piedi, leggermente defilati come nostro solito, potevamo avere una vista d’insieme di tutto questo pur riuscendo a seguire il colloquio della donna con gli altri intorno. Non c’erano rumori, solo le voci pacate che si alternavano, il latrare dei cani di tanto i tanto, i nostri pensieri che a volte si trasformavano in parole che venivano sussurrate per non interrompere il flusso del discorso principale. Qualche mosca ci tormentava volandoci intorno e regalandoci la sua compagnia. Il caldo si faceva sentire ma l’attenzione era troppo forte perché potesse infastidirci. Lontano, una motocicletta attraversava lenta la campagna alzando una nuvola di polvere subito dispersa da qualche impercettibile brezza di vento. Ad un certo punto la nuvola si fermò. I due uomini sulla motocicletta ci osservavano. Troppo lontani per distinguerne i volti e le espressioni ma certamente incuriositi da quel capannello di persone bianche. Qualche minuto e la moto si allontanò con il suo seguito di polvere al vento. L’Inglese si alternava allo Swaili nel colloquio che si cercava di avere con la donna. Lei, la madre, parlava di sè e della propria vita, del come le sue giornate sono organizzate, delle sue necessità, dei suoi sogni. E del figlio che qualcuno di quel gruppo stava da tempo aiutando e che ora, per la prima volta, vedeva e conosceva di persona. Nick ed io, leggermente in disparte, ascoltavamo in silenzio. Ed insieme ci facevamo trasportare dalle sensazioni di quel luogo, da quel paesaggio, dai suoni di quella lingua. Un gruppo di bambini si avvicinò correndo come tutti i bambini fanno. Si distribuì chiassoso intorno a noi cercando di attirare l’attenzione. Riuscì così bene a farlo che venne redarguito dagli adulti. Si disperse così velocemente come era venuto. Solo un ragazzino rimase. Forse 10 anni forse poco più. Si avvicinò a Nicola e si mise al suo fianco. Bianco e nero, alto e basso. davvero curiosa da vedere quella combinazione. E lui, il piccolo, era davvero curioso di quell’oggetto ingombrante e nero appeso al collo di Nicola. Quella Canon lo attirava veramente molto. Iniziò a toccarla in tutti i modi, a guardarla a mettere le dita sulla lente. La situazione si risolse quando il piccolo si accorse che le braccia di Nicola erano di gran lunga più interessanti e strane. Bianche e pelose, con quella peluria lunga e chiara che a loro mancava del tutto. Davvero tutto molto, molto strano per quel bambino che prese a toccare il braccio sinistro per saggiare la consistenza ed effetto di quei peli e poi, una volta resosi conto dell’effetto, iniziò a passarvi la guancia, avanti e indietro carezzandosi da solo con il braccio immobile di Nicola che non osava interrompere quei gesti. Coesistenze. La donna parlava, timida e a tratti commossa. Il traduttore girava le domande e le risposte ai destinatari. Il cane si aggirava intorno, a momenti mesto e triste, a volte curioso. Il bambino carezzava con la guancia il braccio di Nicola. Qualche adulto passava a distanza e si fermava un attimo ad osservare. Vedevo tutto questo quasi dall’esterno, quasi come in una sorta di film. Immaginavo una ripresa che partiva dal viso del bambino sul braccio di Nicola e poi si avvitava, allargandosi e alzandosi, a comprendere tutta la scena e i suoi protagonisti. Un giorno nella vita del villaggio Masai, ad un’ora da Arusha. Come tutte le sorprese che si rispettino, lei arrivò per ultima, inattesa ed imprevista. O almeno, così mi piace pensare. A distanza di giorni, non saprei adesso dire se davvero arrivò quando tutto era già iniziato, spuntando da dietro una delle capanne, oppure era già lì fin dall’inizio, mescolata agli altri ed invisibile alla mia attenzione concentrata su altre cose intorno. Insomma, lei arrivò in ultimo. La notai avvicinarsi lentamente, timorosa. Era sola, molto giovane, forse sui 12 o 13 anni. Vestiva gli abiti tradizionali, ma sopra indossava una maglietta blu di fattura diversa, probabilmente la divisa della scuola o simile. Un pò malandata ma tutto sommato ben tenuta, era un pò troppo grande per lei e le scopriva una spalla. I capelli rasati, praticamente a zero, rendevano il suo viso particolare, lasciando trasparire l’armonia del viso e accentuando la bellezza del taglio dei suoi occhi. Timida, con gli occhi che a momenti incrociavano i miei per poi allontanarsi posandosi altrove, era incerta se avicinarsi ancora oppure no. Si fermò un attimo e mi guardò. Non potei non notare di nuovo questa sua bellezza acerba e così diversa dai canoni abituali. Immaginai una foto, con diverse focali ed angolazioni. Un falsh di schiarita per illuminare il viso. Lei tornò a guardarmi ed accennò un sorriso. Anch’io sorrisi e feci un cenno di saluto con la testa. Lei sorrise di nuovo. Di nuovo quel sorriso appena accennato, insieme timido e velato ma fatto col cuore. Portai l’interruttore della mia K7 su off e rimisi il tappo sull’obbiettivo. Focali, inquadrature, luci di schiarita, costruzioni formali e inquadrature. Nulla che potesse veramente interessarmi. Se già non lo consideravo particolarmente importante nella vita quotidiana, lì, allora, era decisamente fuori luogo. Nulla volevo cambiare o alterare di quei momenti e di quel modo ci comunicare. Volevo che quelle sensazioni fluissero libere e senza costrizioni di sorta, volevo sentirle, non riprenderle per mostrarle ad altri, diluendo e disperdendo tutta la loro forza in un rivolo di frammenti di immagini, considerazioni, ipotesi. Il bambino aveva ora ripreso a carezzare il braccio di Nicola con la mano. La ragazzina Masai si avvicinò a me, fermandosi al mio fianco. Incontrai quei suoi occhi neri e profondi, scoprii quel sorriso leggero cui non sapevo dare spiegazione alla sensazione di bellezza e dolcezza che riusciva a generare. Guardai di nuovo quel golfino un pò sfatto ma di un bel blue con quella spalla che usciva malamente, notai di nuovo quello strano oggetto allungato che aveva con se, appoggiato alla spalla e che scoprii poi essere un contenitore per il latte, sfiorai con lo sguardo quei capelli rasati e quegli zigomi così diversi dalle fisionomie cui sono abituato. Inevitabilmente vidi volti ed aspetti di ragazzine del mio paese della stessa età, ne vidi le differenze e le simili speranze e sogni, ne sentii le influenze e le forzature che i diversi ambienti davano, compresi come le attese e le aspettative fossero intrecciate ad aspetti alieni e socialmente definiti. Mi guardò di nuovo, la guardai di nuovo. Nessun linguaggio in comune, nessuna parola che si potesse in qualche modo condividere o tentare di condividere. C’erano solo gli occhi, lo sguardo di ciascuno verso l’altro. Le espressioni essenziali, comuni a tutti ovunque, basilari ed impossibili da fraintendere. Sorrise ancora, ci guardammo, ci prendemmo per mano. Alla fine del colloquio, chiesi a lei e alla madre di poter fare delle foto ricordo. |